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Il colascione, con piccola cassa convessa e manico lungo da 100 a 200 cm, fu assai popolare nell’Italia meridionale e non mancava nelle gaie scampagnate come ci testimonia Giovanni Battista Valentino in un poemetto “Napole scontraffatto doppo la peste”, dato alla luce da Paci nel 1668. Vi si narra una gita a Posillipo: Co’ cètole. chitarre e tammorielle, co’ tiorbe a taccone e colasciune moschette, rebecchine e siscarielle co ‘ zimmare, viole e biolune… Si suppone che gli inventori di questo strumento siano stati i fratelli Cola di Brescia che costruirono esemplari di rara bellezza alla metà del XVIII° sec., epoca in cui il colascione aveva raggiunto le sei corde. La paternità di questo strumento viene messa in discussione dal ritrovamento di due esemplari a Napoli e Bruxelles che riportano la seguente dicitura: “Bàrrata Eméntoti facebit in Padóua anno Dominum 1564” . Il manico ha 24 tastature per produrre una successione cromatica di 2 ottave su ciascuna corda. Il tipo più piccolo si chiamò colasciontino o mezzo colascione, con 2 o 3 corde, intonate all’ottava alta, e non più lungo di un metro. La derivazione medio-orientale del colascione ha per un momento interrotto la successione cronologica relativa all’evoluzione del Liuto lungo che, presso i popoli orientali, è ancora presente nelle culture indiana e cinese. In India il Liuto lungo si trasforma in uno strumento sempre con la cassa piccola, di legno o di zucca, e con la tavola armonica di legno perforato; il manico si appiattisce nella parte superiore per formare una comoda tastiera ed è vuoto onde ampliare la sonorità dello strumento. I piroli sono ancora in posizione mista (frontale e laterale), ma le corde metalliche poggiano su dei cavalletti mobili per variare l’intonazione di volta in volta, come è d’uso nella pratica musicale indù.
Il nome sitar — con cui, durante il Medioevo, divenne popolare nell’India settentrionale il setar persiano a 3 corde — ha oggi perso il suo significato etimologico, ed è impiegato genericamente per indicare moderni liuti che, nella maggior parte dei casi, presentano da 4 a 7 corde. Di regola, solo una delle corde serve per la melodia, mentre le altre sono impiegate come bordoni, e talvolta potenziate da corde aggiuntive. In Cina, il tanbúr e il sitar generarono lo san-hsien (o hsientzo), che, analogamente al termine persiano sitar, significa «3 corde». La cassa laccata in rosso, costruita con un massiccio telaio quadrangolare o rotondo, la pelle che forma la tavola d’armonia e il fondo, i grossi piroli laterali cuneiformi e il grande e pesante plettro triangolare di giada sono elementi caratteristici delle manifatture siniche, ma non sono sufficienti a celare l’origine medio – orientale dello strumento, che conserva il manico lungo infilato nella cassa, terminante in un cavigliere a spatola che risvolta leggermente all’indietro. La civiltà occidentale indicò in Mani (t 215 d.C.) l’inventore del liuto. L’antico teologo fu attivo in Persia, considerazione che ancora ci riporta sull’area di sviluppo dello strumento; essendo un seguace del pensiero greco, Mani introdusse quell’etica nelle sue dottrine, favorendo lo studio della musica, della poesia e della pittura, discipline che i suoi confratelli dovevano conoscere.
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